La perfezione, il più grande nemico del jazz
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Si interessa di jazz, musica classica su strumenti originali, improvvisazione radicale. Diploma al Conservatorio di Cagliari. Dal 1980 circa è attivo sulla scena del jazz. Ha suonato sin dal 1985 in orchestre sinfoniche e d’opera e di musica da camera. Dal 2001 insegna contrabbasso, e dal 2004 contrabbasso classico, jazz e musica d’insieme al Conservatorio di Cagliari.
“La perfezione è nemica dell’eccellenza” (…)
“La perfezione è sempre a un gradino dalla perfezione”(…)
“Se avessi aspettato di essere perfetta, non avrei mai scritto una parola” (Margaret Atwood)
PERCHÉ LA PERFEZIONE È IL NEMICO DEL JAZZ
Ognuno spera di essere perfetto un giorno o l’altro. Suonare con intonazione perfetta, linee perfette, suono perfetto… ma se pensassimo invece che l’idea stessa di perfezione è ciò che ci trattiene? Questa aspirazione per la perfezione non solo può danneggiare la nostra pratica quotidiana, ma può portarci via il divertimento e il piacere della scoperta, l’intero processo di apprendimento.
Suonare jazz è una delle aspirazioni più individuali in cui possiamo imbarcarci. Pensiamo un attimo, Charlie Parker, John Coltrane, Thelonious Monk, Oscar Peterson, Bill Evans… ogni singolo individuo è assolutamente originale, unico.
Ma spesso il modo in cui viene insegnato il jazz è tutt’altro che individualistico, come se ci fosse un modo “standard” di suonare e pensare jazz, con norme universalmente accettate di che cosa è “buono” e cosa è “cattivo”. Che ogni accordo richiede una certa scala, ogni strumento deve suonare in un certo modo, e ogni musicista di jazz deve approcciare la musica in un modo simile.
Ma l’idea della perfezione, è esattamente solo questo: un’idea, creata e sostenuta da chi ci sta intorno, dalle nostre influenze, i nostri insegnanti, amici, e soprattutto noi stessi.
Col tempo, questa idea di perfezione nel senso di suono, tecnica, e persino di cosa sia il jazz stesso, tende a indirizzare e limitare il modo in cui approcciamo la musica.
COME SORGE L’IDEA DI PERFEZIONE
Noi non abbiamo quest’idea innata nella nostra mente, a un certo punto ci viene la curiosità di sapere che cosa potrebbe essere la perfezione…
Suoniamo il jazz per l’energia che ci trasmette, perché ci sentiamo trascinati dalla musica, ma mano a mano che proseguiamo con lo studio, l’analisi, e la razionalizzazione, la fiamma smette di bruciare come prima.
Tutto inizia con la prima ossessione rivolta a uno dei nostri eroi musicali…
Imitare, copiare, smontare pezzo per pezzo uno dei nostri musicisti preferiti, è essenziale per il processo di apprendimento, ma spesso ci perdiamo nel musicista stesso, elevandolo ad un tale livello di grandezza che non potremo mai sperare di raggiungere.
Il nostro eroe musicale acquista quindi questa immagine di perfezione nella nostra mente, e ogni cosa che facciamo col nostro strumento, dalla ricerca del timbro alle linee, alle frasi, al timing, dobbiamo misurarlo contro di lui. Abbiamo creato questa idea di musicista perfetto, che fa ogni cosa nell’unico “modo giusto”, e noi siamo lontanissimi da questa.
Ma l’idea di perfezione non si ferma qui. Come studiamo la tecnica, il suono, il repertorio dello strumento, viene alla luce un’immagine di perfezione strumentale, dove fissiamo nella nostra mente di cosa sia avere “una gran tecnica” o un “bel suono”, anche se questi fanno parte dell’interpretazione individuale. Ad esempio, Oscar Peterson e Bill Evans hanno una gran tecnica e un bellissimo suono entrambi, ma sono completamente diversi, al punto che sono riconoscibili da una singola nota o un accordo.
Arriviamo fino al punto di costruire un’idea nella nostra mente di cosa significa suonare jazz in modo “perfetto”. Abbiamo questa idea della perfezione del jazz, che comanda qualunque cosa facciamo, dai brani, ai soli che trascriviamo, all’attitudine generale, al significato stesso di “essere un musicista di jazz” o semplicemente “essere un musicista”.
Tutte queste idee di perfezione le creiamo – consciamente o inconsciamente – per una ragione: aiutarci a capire che cosa ci piace e cosa non ci piace, per avvicinarci al nostro ideale, il che potrebbe essere in teoria qualcosa di utile.
Il problema sorge quando siamo così attaccati alla nostra idea di perfezione che respingiamo la nostra individualità, creatività, la soddisfazione e la ricerca, ciò che ci porta a scoraggiarci e a perdere l’interesse.
È questa ossessione di perfezione che ci manda dritti conto un muro, dentro una gabbia di limitazioni e distruggendo il motore stesso che dovrebbe spingerci ad imparare, con divertimento come un’esperienza appagante.
Quindi, come riconosciamo questa ossessione e come possiamo superarla?
COME SUPERARE L’OSSESSIONE DELL’”EROE PERFETTO”
Imparare dai nostri eroi musicali è fantastico, e probabilmente il modo più diretto di imparare il linguaggio jazz. Suonando sopra le registrazioni dei maestri, assorbiamo i dettagli che non possono essere comunicati verbalmente o da una pagina scritta.
Usiamo i nostri eroi per ispirarci, per motivarci, per capire i meccanismi interni dell’improvvisazione jazz. Usiamoli per scoprire, definire, e creare la nostra personalità musicale.
Tuttavia, se sentiamo che stiamo diventando ossessionati, se sentiamo che vogliamo diventare come loro piuttosto che come noi stessi, è ora di guardarci allo specchio.
3 PASSI PER LIBERARCI DALL’OSSESSIONE DELL’”EROE PERFETTO”
Siamo coscientemente diversi dai nostri eroi – Prendiamo delle decisioni, scegliendo di suonare diversamente dai nostri modelli. Ad esempio se suonano un brano nel registro acuto, suoniamolo nel grave. Se suonano forte, suoniamo piano. Se suonano veloci, suoniamo lento. Allontaniamoci dalle loro scelte, può farci scoprire le nostre.
Sforziamoci di creare e definire il nostro ego musicale – Abituiamoci ad imparare dai nostri modelli come se imparassimo da noi stessi. Chiediamoci ad esempio: Che cosa preferisco del suo modo di suonare? che cosa non mi piace? Che cosa cambierei? Che cosa posso aggiungere? Spesso prendiamo qualunque cosa essi suonino come oro colato, solo perché loro l’hanno suonato. Piuttosto, costruiamo qualcosa su ciò che ci piace, lasciamo perdere ciò che non ci piace, e facciamo nostro il materiale che scopriamo.
Sperimentiamo e siamo fiduciosi – Chiediamoci costantemente: come posso prendere ciò che stanno facendo e andare oltre?
Usiamo ciò che impariamo dai maestri per stare sulle spalle dei giganti, non per stare alla loro ombra.
Non dobbiamo fare le cose nello stesso modo dei nostri modelli. Il loro approccio mostra un singolo modo di fare le cose, in mezzo a una landa sconfinata di possibilità. Impariamo dai modelli, ma prendiamo le nostre decisioni su che tipo di musicista vogliamo diventare, andiamo consapevolmente contro corrente.
COME SUPERARE LA “PERFEZIONE STRUMENTALE”
Uno degli aspetti dell’improvvisazione jazz che ci può facilmente catturare è una impressionante tecnica strumentale. Quando sentiamo un bassista come Niels Pedersen, o un sassofonista come Michael Brecker, pensiamo: “Io ho bisogno di suonare così! Ho bisogno di quella tecnica!”.
O talvolta è una cosa un po’ più sottile.
Quando ho cominciato a studiare al conservatorio, mi hanno insegnato che c’erano una serie di abilità che bisognava raggiungere per essere un buon contrabbassista. Ad esempio, suono pulito, arco impeccabile, aderente alla corda, intonazione perfetta… e queste sono obbiettivamente cose necessarie. Altre cose, come ad esempio vibrare in continuazione qualunque suono, non lo sono affatto e fanno parte di un’estetica mio avviso totalmente antimusicale, sebbene accettate da gran parte dei musicisti.
Imparare a suonare intonati con un suono pulito, conoscere scale e arpeggi etc. è un passo necessario e dà un’idea di cosa significa “avere una buona tecnica strumentale”. È un buon punto di partenza.
Spesso però, questo non è visto come un punto di partenza, ma come un insieme di regole più importanti di qualunque altra cosa, da rispettare ad oltranza e come nel caso dello studio dei nostri modelli, possiamo diventare facilmente ossessionati dal raggiungimento di questo standard tecnico strumentale. Suonare con intonazione perfetta, suonare con tecnica perfetta, suonare con un suono perfetto.
C’è un’enorme differenza tra impiegare del tempo nello studio quotidiano per migliorare l’intonazione e il suono e essere ossessionati dal DOVER suonare lo strumento perfettamente.
Nel jazz forse nessuno suona perfetto in senso assoluto, ciò che un musicista classico aspira a fare. Spesso nel jazz l’intonazione è imperfetta, il registro acuto è un po’ stridulo, o l’articolazione può essere poco chiara.
Il jazz non è musica perfetta. I nostri modelli non son perfetti, e spesso si permettono di sbagliare.
Anche se un musicista di jazz studia duramente ogni giorno la tecnica del suo strumento, l’intonazione, il suono etc. nelle performance questi aspetti della musica passano in secondo piano rispetto a prendere dei rischi, raccontare una storia, creare delle “atmosfere musicali”. Questi sono elementi del jazz che servono per comunicare col pubblico.
Do not fear mistakes, there are none (Miles Davis)
(Non abbiate paura degli errori, non esistono)
Andiamo oltre la nozione (sbagliata) che ci sia un solo modo corretto di suonare il nostro strumento, o che non siamo autorizzati a sbagliare. Stiamo suonando jazz, non facendo una audizione per l’Orchestra della Scala…
3 PASSI PER LIBERARSI DALLA “PERFEZIONE STRUMENTALE”
Stiamo al nostro livello – Ognuno inizia come un principiante, questo è un dato di fatto. Cerchiamo di essere a nostro agio col nostro livello strumentale, ma cerchiamo di fare continui progressi migliorando la nostra tecnica strumentale. Non dobbiamo sentirci frustrati se non sappiamo suonare così forte, o così veloce, o così articolato. La tecnica e il suono si migliorano giorno dopo giorno, con piccoli passi.
Abbiamo il diritto di sbagliare – Il jazz è infestato dai cosiddetti “errori”. Questi sono una parte di ciò che fa grande questa musica. Non abbiamo bisogno di suonare sempre “al sicuro”. L’obbiettivo è di improvvisare e essere “sul pezzo”, quindi impariamo a “lasciar andare” concentriamoci sulla nostra voce interna, prendiamo il rischio, e cerchiamo di suonare ciò che sentiamo dentro. Non si tratta di suonare il nostro strumento con assoluta perfezione, si tratta di esprimere la nostra voce interiore, mandare un messaggio, raccontare una storia.
Approcciamo il nostro strumento come un viaggio per tutta la vita – Abbiamo tutta la vita davanti per migliorare la nostra tecnica, non sarà mai un lavoro finito ma qualcosa su cui lavoriamo tutti i giorni e sul quale progredire lentamente. Prendiamoci il tempo necessario e facciamo miglioramenti “sostenibili”.
Non facciamoci bloccare dall’ossessione di suonare perfettamente il nostro strumento, dobbiamo imparare a suonare melodie improvvisate e prendere dei soli con fiducia in noi stessi. Integriamo piuttosto gli esercizi di tecnica nella pratica quotidiana.
COME SUPERARE LA “PERFEZIONE JAZZISTICA”
Che cos’è il jazz? se chiediamo a 100 grandi musicisti avremo sicuramente 100 risposte diverse, ma quando stiamo imparando a suonare jazz, sicuramente non sembrerà così.
A volte sembra che dobbiamo pensare a cosa sia e suonare il jazz in un solo modo – che dobbiamo studiare una lista precisa di musicisti, in un ordine preciso, che dobbiamo imparare un linguaggio preciso, suonare certi pezzi, e approcciare il jazz in un modo preciso, per essere un “vero” jazzman…
Bisogna abbandonare completamente il concetto di cosa sia o cosa potrebbe essere il jazz.
“For me the word jazz means I DARE YOU” (W. Shorter)
“Per me la parola jazz significa TI SFIDO” (W. Shorter)
Qualcuno può dirci che dobbiamo saper suonare funk, rock & roll, e salsa e ogni aspetto del jazz se vogliamo lavorare, oppure che dobbiamo conoscere migliaia di brani, o un sacco di altre possibili leggende, ma la verità è che:
- Non esiste un insieme di regole che i musicisti devono rispettare per suonare il jazz, e non esiste un solo modo per suonarlo.
- Ci sono tanti diversi tipi di gigs, inclusa l’opzione di inventare il nostro tipo, e non esiste un modo unico di suonare jazz, o di lavorare come musicista di jazz al giorno d’oggi. Sta a noi decidere che cosa vogliamo fare con la musica, che cosa ci piace, che direzione vogliamo prendere.
Se ci sentiamo oppressi dalle definizioni del jazz di qualcun’altro, seguiamo questi passi per slegarci:
3 PASSI PER LIBERARCI DALLA “JAZZ PERFECTION”
Resistiamo ai dogmi sul jazz – Non esiste una singola definizione di jazz. Riviste, libri di storia, insegnanti, e altri cercano di definire che cosa sia, e che cosa è necessario che sia per essere jazz, ma questa è solo la loro definizione. Una definizione più adatta potrebbe essere “Un linguaggio musicale costruito dai musicisti jazz del passato, proseguito ed ampliato in ogni sorta di direzione, ognuna della quali unica, e soprattutto un linguaggio che può condurci ovunque”.
Indaghiamo su cosa significa il jazz per noi – Che cosa significa il jazz per noi? mano a mano che ci addentriamo nella musica, la risposta a questa apparentemente semplice domanda cambia, esattamente come cambia il nostro approccio alla musica.
Passiamo all’azione – Qualunque cosa significhi il jazz a questo punto del nostro sviluppo, cerchiamo di agire in quella direzione. Non ignoriamo i fondamenti, ma cerchiamo di incorporare il nostro modo di vedere la musica. Ad esempio, se jazz significa soprattutto suonare delle melodie interessanti, o si tratta di ritmi sincopati, o poliritmia, andiamo in quella direzione. Qualunque cosa sia, traiamone ispirazione per indirizzare il nostro studio. Di sicuro il jazz non è una cosa: non è un’arte stantìa che troviamo sui libri di storia.
VERA PERFEZIONE: ACCOGLIAMO I DIFETTI E SUONIAMO COL CUORE
Il jazz è fatto più di imperfezione che di perfezione. Dobbiamo scoprire l’imperfezione, accettarla, includerla nel nostro linguaggio.
Per capire che cosa significa questa frase, ascoltiamo John Coltrane ad esempio: possiamo dire che è lui dalla prima nota che suona, e non perché sia perfetto, ma proprio perché non lo è affatto. Così come riconosciamo il timbro di uno strumento dalla cosa più imperfetta e più simile al rumore: il transitorio d’attacco. Noi riconosciamo John Coltrane dalle sue imperfezioni, i modo in cui raggiunge il registro acuto, alcune note che sono leggermente stonate, la sua articolazione…
Le imperfezioni sono ciò che definiscono noi e la nostra voce.
Questo non significa che non dobbiamo studiare per suonare intonati, o con un bel suono, o con la giusta articolazione, significa che lavorando per suonare intonati, con un bel suono e ben articolato, non rimaniamo bloccati sulle inevitabili imperfezioni che possono essere nel nostro modo di suonare.
I nostri eroi musicali non sono perfetti, nessuno suona jazz in modo perfetto, e nessuno è in grado di definire che cosa sia esattamente il jazz. La perfezione nel jazz è un’illusione, quindi smettiamola di punirci. Ricordiamoci che la nostra voce nel jazz non sta nell’ossessione per la perfezione, ma nell’inclusione delle nostre imperfezioni attraverso il lavoro quotidiano di curiosità interesse, scoperta personale, e godimento della musica.
IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA: DEVI ESSERE TE STESSO 😎 (e basta così?)
Naturalmente c’è chi prende alla lettera tutto quanto detto prima, ma ciò non significa che vada a suo vantaggio comunque. Da qualche anno a questa parte, in certi format televisivi si sente ripetere sempre la stessa cosa “devi essere te stesso” o “devi essere spontaneo”. La maggior parte delle volte queste idee espresse nel programma televisivo, ed applicate al contesto musicale creano danni irreparabili. Infatti, spesso si sentono dei cantanti stonati, o fuori tempo, ma i loro “coach” gli dicono “devi essere spontaneo”. Il risultato è che decine di ragazzi che vorrebbero avvicinarsi allo studio della musica, pensano che per diventare dei musicisti sia necessario essere spontanei prima di tutto, e ciò a discapito dello studio, della conoscenza della teoria, dell’armonia, della ricerca, dell’ascolto critico, della conoscenza della tradizione. Inoltre, i musicisti presi a modello sono spesso essi stessi molto mediocri, e prendere a modello un musicista mediocre non contribuisce certo a creare una personalità musicale.
Inoltre, la frase “non mi viene spontaneo” viene usata come alibi per coprire l’incapacità di fare qualcosa, o l’ignoranza di certe tecniche di improvvisazione, o alcune lacune come scarso senso ritmico, mancanza di chiarezza etc.
La spontaneità non serve assolutamente a nulla senza la conoscenza.
Oggigiorno la quantità di informazioni disponibili gratis è enorme, addirittura eccessivo, basta digitare un nome, o un genere musicale su youtube e troviamo milioni di registrazioni audio e video. Diventa addirittura complicato scegliere un titolo. Anche qui entra in gioco la necessità di un insegnante, che possa guidare anche nella scelta delle cose fondamentali e non perdere tempo con cose banali. Anche se vagare a caso può comunque portarci a scoprire qualcosa di nuovo, una scelta mirata può aiutarci a progredire. Qualunque genere di musica vogliamo suonare, ci sono delle cose che non si possono ignorare. Non possiamo essere dei buoni musicisti di jazz se non conosciamo A Kind Of Blue, tanto per fare un esempio. Non possiamo studiare il contrabbasso e non conoscere Charles Mingus, Paul Chambers, Ray Brown, Charlie Haden, Oscar Pettiford… ma aggiungerei, qualunque strumento suoniamo, non possiamo ignorare grandi maestri come Charlie Parker, Thelonious Monk, Lester Young, John Coltrane, Bill Evans, Oscar Peterson, Red Garland, Joe Pass, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan, Billie Holiday, e tanti altri. Oppure suoniamo solo musica classica? non possiamo ignorare le opere storiche dei più grandi musicisti del passato: Johann Sebastian Bach, Wolfgang Amadeus Mozart, Ludwig van Beethoven, e mille altri…
O meglio, abbiamo tutto il diritto di farlo ma saremo sempre dei musicisti scarsi e ignoranti.
Purtroppo a causa dei format televisivi come x-factor si è creata una generazione di aspiranti musicisti, che non hanno la più pallida idea di che cosa significhi studiare uno strumento, ma al contrario sono convinti di sapere quasi tutto della musica. E sono soprattutto molto spontanei nell’esprimerlo.
Ciao Massimo.
Nel leggere il tuo interessante articolo, che condivido in toto, ad un certo punto ho pensato:
io che da sempre mi “cimenticchio” nel jazz senza mai averlo studiato veramente….. ” oggi ho capito di essere un musicista jazz mentre sino a ieri pensavo di essere solo uno che ogni tanto prova a suonarlo”.
Scherzi a parte, qui di seguito fornisco alcuni spunti integrativi, se posso.
Sulla perfezione esecutiva:
– è ovvio che il non voler perseguire la perfezione non può essere un’alibi per l’incapacità; bisogna essere intonati, andare a tempo e suonare pulitamente, conoscere l’armonia, ecc.;
– l’ideale della perfetta intonazione, precisione ritmica, suono pulito e via dicendo, come qualunque altro ideale, svolge la sua perfetta funzione di riferimento assoluto (è ad esempio un riferimento rigido la ritmica perfettamente matematica codificata nella parte scritta, che mai sarà suonata esattamente così);
– un’esecuzione maniacalmente vicina a tale ideale assoluto può essere ammissibile in certe fasi dello studio ma va totalmente dimenticata quando si suona.
Occorre poi distinguere tra la musica classica (almeno così com’è intesa in ambito accademico) e il jazz.
Tra le due “correnti” c’è un abisso che le separa. Infatti:
– la prima è l’arte della codifica, che procede dalla parte scritta tentando un’aderenza quasi maniacale alla perfezione tecnica e formale, verso uno stile esecutivo preciso che sappia evocare l’epoca in cui è nata;
– la seconda (il jazz, appunto) è l’arte della trasgressione di una tale codifica, laddove il tema è quasi sempre ridotto o riducibile ad una melodia con armonia siglata e per il resto è (o sarebbe) improvvisazione pura su un canovaccio ritmico armonico (talvolta persino approssimativo) quando non addirittura fuori da ogni schema precostituito, come nel free jazz.
Se ho ben capito il tuo pensiero, tu dici che il “portato” personale di un musicista (che sia tale) può auspicabilmente essere inserito senza particolari riserve in un contesto duttile come quello del jazz, lasciando fluire il suo estro espressivo ed improvvisativo estemporaneo, in quanto secondo la tua visione il jazz dovrebbe restare una fucina aperta volta verso ogni possibilità di contaminazione, interpretazione espressiva (ma anche formale) e, in finale, di evoluzione.
Secondo molti il jazz dovrebbe invece essere ridutto a musica che io definirei “bella ma morta”, analogamente alla musica classica che, a causa delle sue codifiche via sempre più vincolanti, è rimasta infine imprigionata in un cliché che, per quanto splendido esso sia, non ammette alcuna nuova variabile ed evoluzione.
Malgrado la sua irrinunciabile natura improvvisativa “aperta”, un jazz estremamente codificato in stile, portamento, fraseggio e accenti sarà presto (come già è in gran parte) a sua volta imprigionato in quegli specifici stili divenuti canonici.
Musica classica e anche il jazz, così intesi, diventano anche autoreferenziali, chiudendo le porte a chiunque non si adegui ai dogmi di stile e struttura definiti accettabili dalla casta conservatrice che di fatto li gestisce con istinto conservativo.
Quanto sopra considerato non posso che unirmi al coro da te invocato, dunque:
CURIOSITA’, SCOPRIRE, SPERIMENTARE, POSSIBILITA’
In altre parole la risposta deve essere che:
SUONARE E’ DIVERTENTE.
Per cui rendiamolo tale!
Cioè permettendo un fluire duttile della musicalità.
***
Qualche anno fa, nell’intermezzo di una serata musicale, rispondendo ad una mia domanda precisa (come ricorderai) mi dicesti all’incirca quanto segue:
“Tu puoi suonare il jazz perché hai una sufficiente tecnica, una buona conoscenza armonica e un discreto estro melodico, ma non conosci bene le tipicità del fraseggio e del portamento tipico del jazz, per cui quando lo suoni viene fuori un qualcosa che, oltreché musicalmente corretto, è anche godibile ma decisamente fuori dalle righe….”
Quindi, tornando all’incipit di questo commento e tutto considerato alla luce di quanto hai scritto, con intento soprattutto scherzoso ma anche amichevolmente provocatorio, ti chiedo:
“Sono io dunque anche un musicista jazz o sono solo uno che ogni tanto prova a suonarlo?”
:-)
CAro Alessandro, grazie del commento. Da ciò che hai scritto capisco che non mi sono spiegato bene.
In effetti, avrei potuto non mettere la parola “jazz”, e lasciare in generale la parola “musica”. Il senso di quest’articolo è comunque che la ricerca della perfezione (o presunta tale) diventa un ostacolo quando ci impedisce d progredire, in qualunque genere di musica ci stiamo cimentando. Conosco parecchi musicisti di musica classica che non osano cimentarsi in certi brani, o in certe situazioni, perché non si reputano all’altezza, e anche questo è un atteggiamento che ostacola la crescita individuale.
Per quanto riguarda il jazz, tu parli di musica estremamente codificata e immutabile, ma non è esattamente così. Ti faccio un esempio: le lingue sono un esempio di cultura “viva” ovvero in continua evoluzione. Cambiano la grammatica il lessico etc. supponiamo che io voglia riinventare la lingua russa, ma non la conosco bene. Secondo te sarei capace di fare una cosa convincente?
Prima di contribuire all’evoluzione di un genere musicale bisogna conoscerne i meccanismi profondi, il linguaggio e la tradizione, un po’ come per parlare una lingua straniera. Ci vuole molto tempo prima che un madrelingua non senta che abbiamo un accento straniero.
Per suonare il jazz e soprattutto per avere la propria voce unica e originale (obbiettivo da avere, ma che in pochi purtroppo raggiungono) bisogna conoscerne il linguaggio e la tradizione.
Insomma, impara le regole per poterle violare in modo consapevole (Dalai Lama? Pablo Picasso? Gary Peacock? non si sa veramente a chi attribuire questa frase ma mi piace ed ha molto senso).
Di massima (non di Massimo) sono d’accordo… e infatti si trattava di una provocazione benevola, come hai ben capito.
Tuttavia non si può disconoscere il fatto che la “contaminazione” da parte di elementi insoliti e parzialmente fuori contesto (o se preferisci parzialmente fuori linguaggio) è anch’esso un elemento non da poco che ha fatto prendere direzioni inaspettate all’evoluzione del linguaggio stesso, e dietro c’è sempre qualche persona o qualche gruppo umano che, in tal senso, talvolta anche inconsapevolmente, dà lo Start.
E’ anche da notare che talvolta queste deviazioni “linguistiche”, allorquando non si esauriscono per strada, creano un sottogruppo espressivo parzialmente distinto, che quasi sempre prende un altro nome più o meno correlato al linguaggio d’origine
Ciò è osservabile sia in un linguaggio verbale (Inglese-Giamaicano, ad esempio, per restare sul semplice e banale) sia nel contesto di un linguaggio musicale (etnopop, neoclassico, nu-jazz, acid-jazz e mille altri) e così anche in altri contesti (cito ad esempio le divagazioni di certi artisti naïf il cui stile procede dall’impressionismo, ad esempio, senza coincidere con esso).
Credo che sia corretto osservare che spesso queste divagazioni che deviano dal linguaggio-madre musicale, specie in epoca moderna, nascono talvolta dallo stile di un disco pubblicato da un nuovo artista sconosciuto che, avendo avuto un piccolo successo almeno notabile, indirizza di fatto altri musicisti verso lo sviluppo di un nuovo sotto-stile nascente, sino a creare talvolta una vera e propria “corrente”.
Poi, ovviamente, queste espressioni possono apparire più o meno talentuose, più o meno di buon gusto o ben riuscite, o semplicemente possono più o meno incontrare consenso e seguito, e talvolta riscuotere così tanto successo da creare un vero e proprio sotto-genere, talvolta anche aldilà del valore artistico intrinseco della contaminazione e per mille motivi diversi, tra cui spesso c’è anche lo zampino del marketing. Ma quest’ultima è un’altra storia ben nota.
Comunque, in risposta alla tua ultima frase di cui sopra ti dico che, nella prefazione del mio libro sul mixing, ho scritto quanto segue: “Non seguire nessuna regola, ma prima conoscile tutte”. Questa frase fa eco alla tua: “Impara le regole per poterle violare in modo consapevole”…… Parrebbe che ci siamo capiti, infine…. :-)
Ciao Massimo.
Dimenticavo: imparare le regole non è sufficiente per imparare a suonare il jazz, me neanche il funk o la musica pop o la musica classica. Conoscere le regole (come ho detto in un altro mio intervento in questo blog) non è sufficiente per essere dei buoni musicisti. Conoscere la relazione tra scale e accordi non ci dice come costruire una buona linea melodica, e così via.
Certamente no, le regole fanno solo da indicatore, dando criteri di orientamento e strumenti pratici da utilizzare. Ma la musicalità è altro…. ed è persino difficile da definire.