Breve storia della batteria: dalle percussioni antiche all’elettronica
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Pianista, Compositore, Arrangiatore, Fonico, Scrittore, Blogger
Alessandro Fois è musicista, compositore, pianista, arrangiatore e fonico. Dal 2018 è anche scrittore, blogger e webmaster. Attualmente risiede ad Ivrea (Torino) dove, a complemento delle attività suddette, gestisce Lycnos, studio di servizi audio, video e web, e lo studio di registrazione Glamour Recording Studio.
Breve storia della batteria
Ai nostri giorni non è quasi possibile concepire una esecuzione musicale senza il supporto delle percussioni. Nella musica popolare sono spesso utilizzati tamburi di vario tipo, secondo le caratteristiche etniche, geografiche e storiche. Il drumming, insieme al canto, è sicuramente la prima espressione musicale nella storia dell’umanità, risalente a migliaia di anni fa. Ai nostri giorni, suonare uno strumento a percussione come la batteria significa creare una solida struttura ritmica che funga da sostegno per le altre esecuzioni musicali, conferendo ad esse altresì incisività e dinamica. Nel pop, come nel rock e in altri generi moderni, è principalmente il batterista che marca il portamento ritmo, al quale gli altri musicisti dovranno attenersi.Radici multiculturali.
Le percussioni nei tempi più antichi
Agli esordi dell’umanità, il primo strumento musicale fu sicuramente la voce.
Gli strumenti a percussione le si affiancarono presto, fornendole un potente sostegno ritmico e un notevole contrappeso tonale.
Molti storici asseriscono che lo scopo principale delle percussioni fosse di ordine pratico.
Nei tempi antichi i rituali mistici e sociali stimolarono la comparsa di varie espressioni musicali, talvolta estemporanee, create a loro supporto.
Nei primordi, tali espressioni erano essenzialmente concertate per mezzo di un uso abbondante di voci e percussioni.
E’ singolare notare che le percussioni si sono sviluppate in modo autonomo in ogni parte del mondo.
I primi reperti di piatti e tamburi risalirebbero circa al VII secolo a.C..
Nello specifico, i piatti furono rinvenuti nelle tombe degli antichi greci, i quali ritenevano che essi avessero il potere di tenere alla larga gli spiriti maligni.
Alcune sculture e dipinti di piatti e tamburi, però, sono stati ritrovati in antiche tombe risalenti ad epoche precedenti, egizie e romane.
Sono invece numerosi i dipinti meno antichi che raffigurano piatti metallici usati come strumenti musicali durante i banchetti e le feste.
Come per ogni cosa, mentre le civiltà progredivano, anche le percussioni si evolvevano.
Gli antenati dei moderni pezzi della batteria iniziarono ad apparire nell’Europa medievale e rinascimentale, e presto si diffusero e vennero sempre più perfezionati; i piatti invece hanno mantenuto essenzialmente la stessa forma per migliaia di anni
Uso delle percussioni per scopi militari
Successivamente, i tamburi e i piatti, insieme ai corni, alle trombe e alle cornamuse, furono utilizzati dagli eserciti per l’addestramento militare, per le parate e persino durante le battaglie.
L’obiettivo era quello di comunicare efficacemente:
- inviando ordini ai soldati anche a grandi distanze per mezzo di “codici” espressi musicalmente con melodie o ritmi specifici,
- di accompagnare ritmicamente una inarrestabile marcia per mezzo di un ipnotico “mantra”,
- di infondere coraggio, spirito di gruppo e appartenenza, di spaventare il nemico.
Furono i battaglioni ottomani ad introdurre l’uso dei piatti al fine di scoraggiare le truppe nemiche.
Questi metodi raggiunsero il massimo splendore nel periodo napoleonico e solo successivamente vennero ridimensionati; tuttavia le bande musicali dei corpi militari di tutto il mondo resistono tutt’ora ai secoli.
L’Ottocento
Anche nell’800, se pur in misura ridotta, l’uso delle percussioni era spesso destinato a scopi di milizia.
A quel tempo le orchestre militari erano composte da numerosi percussionisti con ruoli differenti: grancassa e piatti, ad esempio, erano suonati da musicisti differenti, come nei corpi bandistici.
Anche le sezioni percussive delle orchestre classiche erano costituite da vari elementi di percussione (ciascuno generalmente suonato da uno strumentista diverso) che sono parte integrante dei moderni set di batteria.
L’avvento dello stile di New Orleans
All’inizio del XIX secolo, gli schiavi neri del Nord America iniziarono a assemblare una sorta di batteria, mettendo insieme varie percussioni, spesso raccattate qua e là.
Poco a poco, le bande di ottoni e lo stile di New Orleans creato dai neri, basati in gran parte sull’improvvisazione, iniziarono ad affermarsi e a guadagnare popolarità, conquistando anche buona parte dei bianchi, primi tra tutti i musicisti.
Per suonare contemporaneamente un doppio tamburo con uno o due piatti attaccati alla grancassa era richiesta l’opera di un unico musicista.
Le ataviche influenze africane si fusero presto con le correnti musicali europee esportate in America. Nasceva così il Jazz.
La batteria moderna
L’invenzione del pedale per la grancassa
Nel 1909, William Ludwig inventò il Bass Drum Pedal (il pedale della grancassa), che fu l’elemento determinante per l’utilizzo di un set percussivo da parte di un unico esecutore.
A quel tempo fu una vera “svolta”; grazie alla grancassa a pedale, entrambe le mani erano libere di suonare simultaneamente più strumenti a percussione, definendo ciò che presto sarà chiamata “batteria di percussioni” e, più tardi, semplicemente “batteria”.
Fu un successo immediato che si diffuse subito a macchia d’olio.
Da quel momento i neo-batteristi iniziarono a suonare in posizione seduta per poter utilizzare con maggior controllo il pedale.
L’introduzione del pedale per la grancassa è stato quindi l’elemento determinante per definire l’avvento della batteria e della tecnica batteristica.
I ricambi per bicicletta trovano un nuovo utilizzo
All’inizio della storia, si svilupparono due tipi di battente:
- quello montato sulla parte superiore del cerchio della grancassa
- quello attaccato alla parte inferiore del cerchio, come nei drum kit moderni
I pedali erano di legno e non erano assistiti da una molla, quindi il battente doveva essere riportato nella posizione di partenza usando il piede.
Il meccanismo di ritorno a molla dei pedali di oggi è stato introdotto nel 1910.
Nel 1934 furono aggiunti i cuscinetti a sfera per determinare un’azione del pedale più fluida.
Nel 1950 la molla fu incorporata nel telaio, consentendo una messa a punto più precisa del pedale.
Il successivo miglioramento arrivò con il pedale a catena, creato da un negoziante di New York, il quale rimosse il precedente meccanismo di azionamento del pedale per sostituirlo con un ingranaggio e una catena derivanti da una bicicletta.
Prima di ciò, alcuni pedali utilizzavano parti metalliche per collegarsi al meccanismo di trasmissione, mentre altri utilizzavano una cintura di nylon, di pelle o di altri materiali.
Del primo si diceva che avesse una “reazione rapida”, mentre del secondo che avesse un po ‘di “gioco”.
La trasmissione a catena combinò i punti di forza di entrambi i sistemi, ne conseguì un elemento robusto che incontrò rapidamente il favore di tutti i batteristi.
Avvento dell’Hi-Hat
Era stato quindi definito il primo set di batteria e il ruolo del batterista, in quanto suonatore di tre percussioni assemblate: grancassa, piatto e rullante.
Ebbe quindi inizio l’evoluzione del nuovo strumento e delle tecniche esecutive più appropriate.
Tra i tanti esperimenti di ulteriore arricchimento del set batteristico, si è presto imposto l’antenato dell’hi-hat.
Il primo hi-hat sembrava una racchetta da neve
L’hi-hat come lo conosciamo oggi è sorprendentemente recente ed stato concepito intorno al 1930.
I primi hi-hat venivano utilizzati soprattutto per scandire nella misura musicale un numero variabile di suddivisioni dei “tempi” (da 2 a 8, detti anche “movimenti”) della “battuta musicale”, al fine di definire una cadenza musicale completa e regolare, sottolineata dagli accenti di rullante e di grancassa.
L’hi-hat nella sua versione primordiale consisteva in due piccoli piatti attaccati a due assi, uno sopra l’altro, uniti con una cerniera e tenuti separati per mezzo di una molla.
La tavola superiore era attaccata al piede con una cinghia simile a un sandalo, che la faceva apparire come una racchetta da neve; da qui il nome col quale veniva chiamata.
Il famoso batterista jazz Baby Dodds, mentre suonava su un battello fluviale nel Mississippi, batteva il pavimento con il piede sinistro a tempo con la musica; nel notarlo, un fan entusiasta modellò per lui un dispositivo a pedale con due piccoli piatti. Si dice che in tal modo ebbe inizio lo sviluppo dell’hi-hat.
Il design originale, tuttavia, era un po ‘diverso da quello che vediamo oggi.
Il principio di base era lo stesso: due piatti rivolti in modo opposto al fine di scontrarsi insieme quando il pedale viene premuto.
Il suono, smorzato e secco, era molto simile a quello degli hi-hat di oggi.
Dalla posizione a terra, per mezzo di un asta e di un meccanismo l’Hi-Hat (poi chiamato anche Charleston) salì in posizione più elevata, il che permise di poter essere utilizzato sia col piede che con le bacchette, influenzando e modificando completamente, in breve tempo, gli stili e la tecnica della batteria.
La batteria moderna e il Jazz
Nei mitici anni ’20, epoca in cui vigeva il proibizionismo, i ricchi gangsters cominciarono ad interessarsi alle grandi band del jazz, così di moda, per i loro Night Club.
Iniziarono così a svilupparsi i Jazz Club, dove si potevano consumare (illegalmente) gli alcolici e ballare al ritmo di brani di musica jazz, in buona parte improvvisata.
Il batterista svolgeva un ruolo molto significativo in quanto doveva mantenere il ritmo per una musica spesso concitata e fuori dai canoni.
Il set moderno
Il primo Charleston a pedale (Hi-Hat) era stato ormai inventato, come pure di lì a poco sarebbe sopraggiunta la possibilità di accordare i tamburi sul cerchio… e improvvisamente “si cambia musica”.
Senza dubbio, Gene Krupa è una delle figure più emblematiche del periodo: famoso per la sua energica e veloce esecuzione, ha avuto un ruolo importante nell’imporre la batteria anche come strumento “solistico”.
Ha inciso molta musica utilizzando un set batteristico che fu alla base per gli standard attuali, con grancassa, rullante, due tom-tom (uno montato sulla grancassa e un altro, dotato di piedi, sul pavimento), un hi-hat e tre piatti: ride, splash e crash.
Tale impostazione consentiva l’esecuzione di sequenze poliritmiche molto brillanti, il che determinò l’avvento di alcuni batteristi leggendari, che hanno scritto la storia.
Uno di questi fu Max Roach, autore di molti modelli ritmici di riferimento per il jazz, ancora assolutamente validi.
I bianchi iniziarono a imitare i neri americani, dedicandosi anch’essi al jazz (che si strutturava in “swing”) e suonando in prestigiose sale da concerto negli Stati Uniti.
Allo stesso tempo, a Parigi, iniziò anche a svilupparsi il cosiddetto jazz gitano.
Gli anni ’40 e il be-bop
Alcuni importanti cambiamenti avvennero negli anni ’40.
Il jazz cominciò ad essere prodotto sempre più in versione di musica da ascolto, non più solo come sostegno per la danza, grazie all’arrivo del be-bop, caratterizzato da scansioni ritmiche molto rapide e armonie complesse.
Il batterista iniziò a ritagliarsi ruoli sempre più complessi e importanti, in quanto tale musica consentiva l’esecuzione di alcune sequenze ritmiche anche in un ruolo solistico, per mezzo delle quali il batterista poteva meglio esprimere la propria creatività, altresì arricchendo il panorama stilistico del jazz e l’antologia batteristica.
Con l’aumento della velocità esecutiva, gli accenti ritmici diventarono gradualmente più leggeri e la funzione dei tamburi diminuì di importanza, dando maggiore spazio al Ride e all’Hi-hat.
In quell’epoca la tecnica batteristica raggiunse un grande sviluppo e così pure il commercio di batterie, per cui i produttori iniziarono a realizzare nuovi modelli sempre più perfetti, non troppo dissimili dagli odierni drum-kit.
L’era del Rock
Prima del 1957, tutti i tamburi dei drum kit erano realizzati in pelle di cervo o di daino.
Si scordavano e si danneggiavano frequentemente a causa della elevata sensibilità ai fattori climatici.
Se il clima era freddo e umido i toni dei tamburi risultavano molto più bassi, se era caldo e asciutto, invece, i batteristi dovevano inumidire le pelli dei tamburi per ottenere un suono corretto.
Nonostante i loro svantaggi, le pelli di tamburo realizzate con pelli di animali producevano un suono speciale e tendevano a durare molto più a lungo di quelle in materiale sintetico, che si diffusero sempre di più al termine degli anni ’50, rendendo più semplice, precisa e persino personalizzata l’accordatura.
Negli anni ’50 e ’60 si assistette all’avvento del rock’n’roll, che affermò la batteria in una veste inedita, molto popolare tra le giovani generazioni, contribuendo al nascente culto per le Rock-Band.
La tecnica esecutiva dei batteristi rock divenne un po’ meno agile ma molto più potente, spingendo i produttori di batterie a produrre tamburi sempre più solidi e sonori.
Anche i piatti divennero più grossi e pesanti, in linea con le nuove esigenze.
Inizialmente le tecniche esecutive mutuate dal jazz si sovrapposero alle nascenti tecniche del rock, sinché queste ultime presero una strada divergente, sino ai giorni nostri.
Per suonare di fronte a grandi platee e stare dietro ai potenti amplificatori delle chitarre, occorrevano batterie capaci di generare molto volume sonoro.
Nacquero così tamburi realizzati con materiali diversi, tra i quali quelli acrilici.
I materiali naturali delle pelli furono sostituiti definitivamente con quelle in Mylar, caratterizzate da una migliore risposta alle variazioni di temperatura e di umidità, e finalmente con una durata notevolmente migliorata.
Per dare più colori alla loro esecuzione, i batteristi aggiunsero al proprio set altre percussioni ausiliarie, moderne, tradizionali ed esotiche.
Il doppio pedale e le personalizzazioni
Ad un certo punto sulla scena musicale si affacciò l’hard-rock e successivamente anche l’heavy metal e i vari generi ad essi correlati.
Il doppio pedale apparve negli anni ’80 e da allora è quasi sempre stato utilizzato dalle band metal.
Al giorno d’oggi, ogni drum-kit può essere personalizzato in base alle esigenze del batterista e allo specifico stile di musica.
Dalla un kit di base, con hi-hat, grancassa e rullante, si può oramai assemblare un kit anche molto complesso, vario e personalizzato.
L’elettronica
Nel frattempo, già negli anni ’60 ebbe inizio la nascita della batteria elettronica, con le prime rhythm-machine che si svilupparono sempre di più.
La originale generazione elettronica dei suoni di tali apparecchi si affiancò successivamente al “sampling” dei suoni acustici del set batteristico, in versione “raw” o anche elaborati per mezzo di processori (equalizzatori, compressori e effetti di ambiente).
Al fine di permettere di simulare le varianti indotte dal tocco, vennero introdotte le tecniche del multi-campionamento digitale e nuovi algoritmi preposti al filtraggio dei samples.
Le schematiche sequenze esecutive delle prime “release” divennero sempre più raffinate e varie, sino alla totale “scrittura” di ritmi e grooves, programmabili per mezzo di una moderna DAW.
I drum-set elettronici ad uso manuale (con i pads), invece, esordirono ottenendo un successo molto frenato, per diventare poi più popolari negli anni ‘80.
Al giorno d’oggi, l’offerta di batterie elettroniche è enorme e comprende sia kit da studio che set da concerto.
Ciò corrisponde alle nuove esigenze sonore determinate dalla discografia moderna, che sempre più spesso utilizza sonorità batteristiche tradizionali più o meno affiancate da nuovi suoni elettronici di vario tipo.
Tali esigenze trovano riscontro in set batteristici ibridi, dotati di piatti e tamburi tradizionali affiancati da pads, programmabili con suoni sintetici e campionati di ogni tipo.
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